Il made in Italy non si delocalizza, Candy docet

26/10/18 - 4 minuti di lettura

 

 

 

di Silver Fox.

Ospito con molto piacere il contributo di un manager che per diversi decenni è stato ai massimi livelli istituzionali e imprenditoriali del made in Italy, quello vero, non quello designed by Italy. Un finto made in Italy punito, tra l’altro, duramente dai mercati e anche l’episodio della fine di Candy in mano alla Haier lo dimostra. Il personaggio non può e non vuole rivelarsi. Non tutto è da me condiviso, soprattutto la pretesa correlazione tra le colpe dell’euro (tra poco all’Europa e all’euro daranno le colpe anche delle mancate copule dei pigri panda e della loro conseguente scomparsa…) e la rarefazione di imprenditorialità e imprese italiane. É manifesta e oggettiva invece la correlazione tra la fragilità culturale e strategica del tessuto delle imprese e degli imprenditori privati nazionali e la loro progressiva liquefazione…sino ad un’atomizzazione (le PMI) che non sempre è positiva. Qui l’euro non c’entra, se non per l’inverso. La globalizzazione si, anzi, questa insieme alla finanziarizzazione criminale (tutti sanno che le borse di NY e di Londra concentrano la più gigantesca nuvola di utili criminali tradizionali e digitali mai esistita a partire dalle mostruose ricchezze dei magnati russi e di cui abbiamo documentazione preocccupante). Una concentrazione pilotata che ha un solo scopo: impadronirsi del ricchissimo tessuto economico-culturale europeo. Cosa che comunque è banalmente “comprensibile”, ovvia. Quando si ragiona con le scarpe, e cioè con i piedi, anziché vedere che è il surplus criminale monetario a distruggere, non si coglie l’origine vera del tutto. Ma c’è un rimedio? Si salva qualcosa del ricco tessuto delle PMI italiane? Boh. Silver Fox porta un contributo prezioso. Leggetelo e rispondete. P.G.

E’ acclarato che il design italiano ed il vero manufacturing italiano sono i due “asset” uno intangibile e l’altro tangibilissimo su cui si giocano le partite che siamo in grado di vincere sui mercati mondiali.

L’Italia è amata per lo stile di vita, per l’ingegno ed i manufatti che concretamente realizzano le idee originali riportando chi li possiede, i clienti, nel solco dell’essere italiano.

Non a caso la lente degli investitori esteri è sulle imprese italiane che occupano spazi di nicchia e oltre nel mondo del lusso. Purtroppo questo paese non è in grado di difendere i marchi italiani che scivolano quasi sempre una volta affermati in mano di altri. La crisi strutturale del paese consegna il frutto del lavoro di generazioni italiane in mani forti che vengono da oltre confine e gli utili che derivano dall’intelletto e delle mani sapienti degli artigiani, seppur prodotti in Italia, fluiscono all’estero. Una beffa grandiosa.

Globalizzazione e infantilismo industriale italiano

La globalizzazione e le regole ferree dell’euro ci hanno portato via le imprese dove il livello di standardizzazione è marcato mentre le imprese PMI che raggiungono un livello di fatturato interessante e una maturità tecnica e commerciale di un certo rilievo passano di mano. Secondo questo paradigma rimarremo sempre ingabbiati nell’infantilismo industriale, il modello dei comuni e dei principati italiani del Rinascimento è oggi più che mai confermato. Un paese nano politicamente dove la fase orale è prevalente e le decisioni ovvie non si assumono mai.

Per tornare a bomba sul settore cucina è chiaro e lampante che le PMI del settore debbono trovare un massimo comun denominatore (concetto base ma in Italia la matematica è vissuta come una tortura cinese e gli elementi conoscitivi fondamentali rimangono vaghi) per poter lavorare insieme e trovare il volume di fuoco necessario per fronteggiare la corazzate straniere (parlo non solo di imprese ma banalmente di sistemi paese).

Quale è la regola:

  • PMI con massima originalità e forza nel design e nella realizzazione il più possibile artigianale (dove il solo pensiero remoto di una delocalizzazione è da 118)
  • Piccole produzioni molto caratteristiche sugli stili di design
  • Nell’applicazione delle tecnologie sfuggire al concetto di omologazione
  • Toccare quei mercati dove la marginalità è assicurata in funzione del Made in Italy

Dove il lavoro è artigianale e le piccole serie caratteristiche sono assicurate non si pone problema invece dove nelle tecnologie degli elettrodomestici si vagheggia il “Designed in Italy” il problema esplode. Un Cliente evoluto non accetta di avere realizzazioni dove l’80% è Made in Italy e dove la restante quota è una tecnologia omologata e dai grandi numeri. Non interessa e finalmente emerge il problema un prodotto di grande serie, ribadisco omologato, seppur di marca.

Compero una Ferrari perché concepita e costruita in Italia non perché designed in Italia e costruita ad esempio in Polonia, Turchia, Slovenia, Cina , ecc. ecc.. Stiamo parlando di auto distanti anni luce.

Ragionando sui mercati: il lusso è certamente il mercato principe dove siamo emersi ma la vera opportunità sono i millenials di rango. Gente abituata a confrontarsi con l’universo internet e dove lo stile di vita è lo status. Nel corso degli ultimi 10 anni il mercato residenziale, compreso quello dei distinguished people, è quello di una residenzialità sostenibile. In altre parole è necessario far di conto con le disponibilità economiche che si sono di molto ridimensionate rispetto alla Milano da bere estrapolando (altro concetto matematico che necessita uno sforzo di comprensione) a livello globale.

Fine prima parte.

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